Quando ci iscriviamo ad una piattaforma social decidiamo di: accettare un prodotto gratuitamente e in cambio regalare il libero acceso ai nostri dati.

Ma se non paghi per utilizzarlo, significa che il prodotto sei tu. Questo aforisma, spesso citato online, si applica bene a tutti i servizi utilizzati sul web per cui l’utente non paga alcun costo: Facebook, Google, Linkedin, Instagram, solo per citare alcuni nomi, sono ormai aziende dal valore miliardario. Il fattore che determina il successo o il fallimento di una piattaforma è il numero di utenti che la utilizzano. Ma come fanno a guadagnare?

Fornendo dati circa la propria età, i propri hobby, le proprie aspirazioni, le proprie ricerche, la media temporale di quanto tempo passiamo su determinati post piuttosto che su altri, offrono un quadro completo degli interessi del singolo che consentono all’algoritmo del social network di vendere spazi pubblicitari(quelli che vediamo scorrendo il news feed o tra un video ed un altro ad esempio) ad aziende di vario genere, che in questo modo sono sicure di comunicare solo al pubblico a cui sono interessate,
facendo delle campagne pubblicitarie mirate. Statisticamente risultano essere più efficaci rispetto quelle rivolte alla massa poiché l’algoritmo è in grado di massimizzare l’esposizione dei contenuti che ogni soggetto o potrebbe gradire, e minimizzare quelli che non gradisce o potrebbe non gradire per ottenere più engagment, più click, più soddisfazione dell’utente e di conseguenza più profitto.

Tutto ciò non è un aspetto necessariamente negativo dal momento che i ‘’cookie’’ nascono per facilitare l’esperienza di navigazione, ci permettono sicuramente il reperimento di contenuti interessanti che forse non avremmo mai scoperto senza di essi.

I problemi però sono molteplici. Essendo noi convinti di vedere tutti le stesse interazioni, ed essendo esposti a contenuti che confermano la nostra visione del mondo possiamo imbatterci nella perdita del pensiero critico e nella polarizzazione della conoscenza. L’essere umano è di sua natura soggetto a ‘’confermition bias’’ ovvero al pregiudizio di conferma, che lo porta a confermare le proprie opinioni trascurando quelle contrarie ad esse. Un esempio pratico di come il mondo social colpisce questo aspetto è
il terrapiattismo. Se l’algoritmo ha ritenuto che il soggetto ‘’X’’ possa condividere e spendere molto tempo a documentarsi sul terrapiattismo, lo stesso soggetto ‘’X’’ potrebbe cambiare opinioni nonostante le numerose evidenze scientifiche e credere che la terra sia piatta. Se la gravità della cosa non fosse ancora chiara, non è il problema che il soggetto ‘’X’’ sia un terrapiattista. Il problema è che ‘’X’’ vede solo ciò che il filtro decide che deve vedere, alimentando il confermition bias che non lo porterà a confutare la sua tesi. Il rischio è di finire indottrinati dalla nostra propaganda non essendo nemmeno partecipi, non conoscendo neppure i meccanismi che decidano di associarci ad un idea piuttosto che ad un’altra.

Ma noi non siamo algoritmi, il pensiero umano è fuori dagli schemi. In questo senso l’importanza del pensiero personale diventa preponderante. La tecnologia traccia, deduce le nostre ricerche, contatti e allontana ciò che dissocia la nostra linea di pensiero. Siamo in una bolla di informazioni tutti simili ad esse, prive di contraddittorio o di sorpresa. Smettiamo di vivere nella nostra bolla, confondiamo il sistema, ricerchiamo le altre bolle- che poi senza troppe allusioni, sono i pensieri altrui-. La realtà vera ed oggettiva è il punto di condivisione con l’altro. E’ ammettere che esiste un mondo al di fuori di noi e che ignorarlo ci fa male. Torniamo a domandarci il come, il perché, assecondare l’intuizione creativa, lasciamo spazio all’immaginazione, sperimentiamo, parliamo, confrontiamoci, osiamo di scoprire l’inaspettato e l’indesiderato.

Il filtro è politica e minaccia la democrazia. Per gli stessi motivi citati di sopra, comprando spazio pubblicitario è facile fare campagna politica. Ma gli algoritmi non sono neutrali, sono pezzi di codice che prendono decisioni e in ogni decisione che prendono danno priorità ad alcune informazioni rispetto che ad altre. L’algoritmo di ‘’Google news’’, dà priorità ad informazioni recenti che sono state cercate da molte persone anche se sono fake news, perché non ha una morale, non è una persona. La manipolazione è un effetto collaterale dell’algoritmo. Ce lo dobbiamo mettere in testa. Tutte le volte che assistiamo attoniti a comportamenti collettivi privi di senso, in particolare in materia di politica e costume o comunque immaginario collettivo, la colpa del peggio è dei social media. Sono una macchina infernale progettata per esaltare e potenziare l’idiozia.

Come ultimo argomento vorrei riportare un nuovo fenomeno chiamato ‘’Dismorfia da Snapchat’’. Chiaramente non è ancora contenuto nei libri di evidenza scientifica ma è un il nuovo modo di definire questo genere di dismorfia della generazione Z. Una mania tutta americana destinata ad arrivare ovunque che è la richiesta crescente di ricorrere alla chirurgia per migliorare l’espressione nei selfie. Per poter somigliare il più possibile ad un filtro, per capirci, senza usare il filtro stesso. Sicuramente ci sono sempre stati dei canoni di bellezza nella storia, ma da quando questi ‘’difetti’’ possono incidere in maniera così profonda sull’autostima e causare dismorfobia? E se vi dicessi che c’è diversa gente che si suicida ed è
depressa per questo? Abbiamo reso possibile tutto ciò noi. Con le nostre preferenze, con i nostri ‘’like’’. Ma di questi meccanismi quanto siamo consapevoli? Quanto ci autoconvinciamo che il nostro modo di presentarci sia effettivamente autentico?

E si potrebbe parlare di tanto altro ancora, del come le nostre emozioni si siano appiattite per esempio, ma la morale della favola è sempre la stessa: dobbiamo tornare ad essere persone pensanti e ritrovare il controllo delle nostre vite. In qualche maniera a me ignota.

di Sara Scorza

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